“In seguito ad accordi con l’On. Presidenza Provinciale, questo comando di Legione ha organizzato una marcia notturna a cui dovranno partecipare tutti gli avanguardisti appartenenti alla I coorte. Tale marcia è fissata per la sera del 14 corrente alle ore 20, il percorso sarà di 10 Km ( 10 andata e 10 ritorno). I suddetti organizzati si incontreranno con i camerati di Fermino, anch’essi in gita notturna. Alla partenza dalla città assisteranno le autorità cittadine. Gli avanguardisti tutti hanno l’obbligo di intervenire, dando prova di entusiasmo e di attaccamento per l’organizzazione. E’ prescritta la divisa perfetta.
Il Comandante della Legione “
Il manifesto troneggiava sulla piazza principale della città; tutti si fermavano a leggerlo. “ E noi come faremo?” mi domandava il mio amico Arnaldo, anche lui ,come me, figlio quindicenne di una famiglia antifascista. “Ci daremo malati e resteremo due giorni chiusi in casa” rispondevo rassegnato. “ Ah no, io voglio vederli sfilare quei buffoni! Li seguiremo senza farci vedere; tanto a quell’ora comincia a far buio e nessuno si accorgerà di noi.” “ Va bene- rispondevo allettato dall’idea- ma cosa diciamo ai nostri genitori?” “Dopocena, tu dici che vieni a casa mia e ti fermi a dormire, e io dico che vengo a casa tua”. Mi sembrava un’ottima idea. Nessuno di noi due prendeva in seria considerazione i rischi per noi e le nostre famiglie: ci sembrava una prodezza, e anche una piccola rivincita sulla tracotanza delle milizie. Alle ore 20 del giorno 14 eravamo già appostati su un piccolo rilievo sovrastante il luogo di partenza della marcia, ben nascosti dietro fitti cespugli: di lì vedevamo e sentivamo tutto.
Gli avanguardisti erano radunati all’ inizio del corso principale, vestiti con il maglione nero, giacca con le mostrine, pantaloni allacciati sopra le caviglie e scarponi chiodati. Il comandante dava ordine al capocenturia di metterli in riga e li passava in rivista, con le mani ai fianchi, gonfio e superbo: “ Perfetti dovete essere, veri moschettieri! Il vostro motto è: credere, obbedire, combattere. Credere in quelli che vi comandano perché essi sono la vostra guida. Obbedire agli ordini che vi vengono dati perché la disciplina è la forza del regime. Combattere idealmente come i vostri fratelli in Africa per il trionfo della causa. Alalà! Alalà! Sfileremo per le vie della città dove cento occhi vi guardano e vi osservano; fieri e scattanti dovete essere, come soldati scelti. Andremo a Fermino, ci incontreremo con quelli di là. Faremo tutta una tirata, non ammetto le tappe intermedie. Quando saremo a Fermino entreremo in paese compatti, come un sol uomo, con passo marziale. E ricordatevi: qui non c’è più il “sì” e il “no”, c’è il “signor sì” e il “signor no”, alla maniera del regime. Alalà! Alalà! Indossava una divisa di orbace, quella della milizia. Sul braccio e sulle spalle spiccavano i segni del grado. I pantaloni erano alla cavallerizza e gli stivali rigidi. Portava il cappello militare con una penna, e sul fianco gli girava un cinturone che si allacciava sul davanti con una grossa fibbia. Un’ altra cinghia di cuoio, passando per la spalla destra scendeva verso il fianco sinistro. Dal cinturone pendevano un pugnale e una pistola. Chiamava il tamburino: “ Tu, attento, quando dico march, devi fare un rullo micidiale, capisci? “Signor sì!” Afferrava il gagliardetto appoggiato a una colonna del portico, dava uno sguardo rapido sulle file schierate e sceglieva l’alfiere. “Tu, vieni qui! Tu avrai l’onore di portare il gagliardetto. Il gagliardetto è il nostro vessillo, devi esserne degno!” “ Signor sì!” “Lo devi tenere per tutta la marcia, non cederlo a nessuno, non abbandonarlo mai!” “ Signor sì!” Con gesto fiero, teatrale, gli passava il gagliardetto; poi si portava avanti a tutti, avanti al capocenturia, avanti anche al gagliardetto, e dava l’attenti con piglio feroce.
“Centuria, avanti march!” In fila per tre, a manipoli distanziati, col tamburo che dava il passo, fecero tre giri intorno alla piazza, dove c’era un po’ di gente curiosa. Lui, il comandante, marciava pettoruto, come un eroe delle cento battaglie. Noi nel frattempo avevamo fatto un percorso parallelo, tra vicoli e scalette, e aspettavamo ben riparati l’arrivo del corteo fuori delle mura. Fuori le mura era buio. Il comandante fece tacere il tamburino e diede ordine di cantare. Dal primo manipolo salirono le note di una marcetta in voga. “Faccetta nera, bell’abissina, aspetta e spera che già l’ora si avvicina, quando saremo vicino a te, noi ti daremo un altro duce e un altro re!” Dopo un chilometro a passo di marcia, presero una strada polverosa che moriva nella campagna. Il comandante permise di camminare in ordine sparso, lui rimaneva in testa a tirare la colonna. La notte era serena, senza luna. Abitazioni, campi, alberi erano scomparsi, affogati nel buio. In quel paesaggio nero, solo la strada scorreva visibile sotto i nostri piedi. Lontano, piccoli punti luminosi segnavano la notte e dalla posizione di quelle luci si capiva dove c’era un monte e dove la terra scendeva in fondo, fino al fossato. La strada si allungava ora su tratti piani ora su ripide discese. Sprofondammo nel fosso perdendo ogni senso di orientamento.
Nel fosso la strada era umida, una nebbiolina fredda ci bagnava le mani e la faccia. Ma riprendemmo a salire e ad un certo punto camminare diventò faticoso, tanto da provocare uno sbandamento nella colonna. Il capocenturia si mise in fondo alla colonna a spingere i ritardatari, mentre noi rallentavamo per paura di essere visti. Davanti il comandante ruggiva: “Su, poltroni, fatevi sotto!” In cima ci trovammo mezzo sbalorditi. L’aria era frizzante e fredda, ci raggelava il sudore. Pareva di camminare alla cieca, in un tunnel oscuro. Poi si scoprì la valle di sotto, quei po chi lumi che indicavano il paese dove dovevamo andare. Affrontammo la discesa a curve strette che era lunga, ci pareva interminabile. Arnaldo, stanco, voleva fermarsi un po’ lì; ma io non volevo perdermi l’incontro con gli avanguardisti di Firmino, e così proseguimmo. Quelli di Fermino attendevano al bivio la colonna. Le sfilarono davanti; il comandante, sull’attenti, salutò col braccio alzato. Tutti insieme, a plotoni compatti, marciarono verso il paese, col tamburino che faceva “rataplan”- “rataplan”- rataplan”. Erano forse le dieci, forse le undici, non c’era nessuno per le strade, dormivano tutti. Il tamburino faceva un chiasso infernale. Il comandante lo fece tacere e cominciò a dare il tempo di marcia col fischietto. Giunsero in una piazza deserta e subito fu dato l’ordine di rompere le righe. Nessuno sapeva cosa fare. Si ripararono sotto un porticato ,dove vennero distribuiti panini e aranciate. Noi nel frattempo ci eravamo nascosti dietro i tavoli all’aperto di una osteria non lontana, a quell’ora serrata, sorseggiando un po’ d’acqua da una piccola borraccia e mangiando due ciambelline che Arnaldo aveva preso in casa. Loro rimasero un bel pezzo sotto quel riparo, come un branco di animali in sosta. Qualcuno cominciò a sdraiarsi per terra.
Per trovare una posizione che permettesse di dormicchiare un po’, se dormicchiare si poteva nell’umido della notte, senza un pastrano, senza una coperta, alcuni si accucciarono ai muri e alle colonne, altri si sedettero a terra, schiena contro schiena. Di fare ritorno non si parlava. Il comandante era dentro, in una stanza illuminata, che doveva essere la sede del partito. Si udiva la sua voce grossa sovrastare quella dei camerati. Parlava di “ volontà di ferro” e di “spirito indomabile”, di “nemici invisibili” e di “sicurezza nazionale”, e nominava spesso il “capo”, che doveva essere “il condottiero di tutte le nostre azioni, in pace e in guerra”. Poi le voci si spensero, si spense il lume della stanza, scese il silenzio. Dopo qualche tempo, mentre anche noi sonnecchiavamo, ci svegliò il grido del capocenturia :” Adunata! Adunata!” La luce nella stanza era accesa, il comandante era pronto a partire. Il pensiero del ritorno a casa li scosse, a casa li spettava un letto. Il comandante disse che erano riposati, che era il momento di “ affrontare militarmente la strada del ritorno”. Il paese era deserto e buio, un dolore marciare. La salita, dopo il bivio, era durissima. Il comandante dava ordine di avanzata a colpi di fischietto, si sbracciava in grida di incitamento, i ragazzi erano morti di sonno, la fila diveniva lunga lunga…” Figli del regime – urlava il comandante –non vi ammosciate!” Ma chi lo stava a sentire, anche il gagliardetto sbandava da tutte le parti. Arrivammo tutti finalmente in cima, i piedi ci dolevano, ci dolevano le spalle e i fianchi, lontano c’era un chiarore, quello dell’alba. Tirava aria fredda che faceva rabbrividire. Riconoscemmo la sagoma della nostra città, con le luci della periferia che sembravano lumini tremolanti, lontana, in cima al monte. La strada ora si incurvava e con alcuni tornanti precipitava di sotto per sparire nel fosso.
Vi arrivammo quasi correndo, trascinati dalla discesa. “Così va bene, ragazzi! – diceva lieto il capocenturia – bisogna tornare a casa.” Il comandante, vedendo che lo sbandamento aumentava per via della corsa, si era messo a urlare: “Gioventù di carta pesta, cosa ne faremo di voi?” “ Schifo!” gli rispondevano gli ultimi senza che lui sentisse. Ora cominciava il tratto più duro, l’ultima tirata per arrivare a quel chiarore. Camminavano lentamente, isolati, a piccoli gruppi, a gruppi grandi; qualcuno si faceva spingere, qualcuno si sdraiava sul greppo della strada giurando che non avrebbe fatto un passo in più: finito l’ordine, finita la disciplina, finito tutto. Il comandante tirava parolacce, strapazzava i graduati, minacciava di fare rapporto al comandante della legione, anche in galera quello li poteva mandare. Ma le minacce non servivano. Procedevano curvi, i piedi erano di piombo, moschettieri, graduati, capocenturia, come un branco di pecore. Il comandante doveva essere arrivato in cima, sbraitava da lassù. Poi vedemmo che si attaccava ogni tanto ad una borraccia, non certo di acqua. Quando arrivammo in vista delle mura della città io e Arnaldo ci dileguammo verso gli antichi passaggi medioevali, protetti dalle ultime ombre della notte, che già cedeva il passo all’aurora.
Alfredo Zampolini
Alfredo Zampolini ( 1921 – 2015 ), è vissuto in Urbino, coltivando rapporti personali e culturali anche con l’ambiente toscano. Pedagogista, scrittore, poeta e commediografo, è stato studioso e divulgatore della cultura e del dialetto urbinate, ricevendo dal Comune di Urbino l’intitolazione di una via cittadina per il suo impegno sociale e culturale. Sul periodico “ Dibattito democratico” ha pubblicato in passato “ Il taglio della seccia”, una prosa poetica dedicata alle fatiche del mondo contadino negli anni 1930-1950 del secolo trascorso. Tra le opere pubblicate dalla figlia Marina dopo la sua morte c’è anche questo breve racconto ,scritto intorno al 1970, in cui rievoca il lontano passato di giovane antifascista e il clima di quell’epoca.
Centro Studi “G. Donati” ODV
Piazza San Francesco, 60 | 51100 Pistoia
cod.fisc.: 80010670471
tel: 0573 367251
e-mail: info@centrostudidonati.it
indirizzo pec: cstudidonati@pec.it
Testata giornalistica regolarmente autorizzata dal tribunale di Pistoia con provvedimento n. 189 del 26 Agosto 1974.
Direttore responsabile: Maurizio Gori
Redazione: Francesco Pacini, Marco Gasperini, Marina Zampolini Agnoli